Mia mamma era una che sapeva aspettare, almeno dal punto di vista di chi doveva arrivare. Come vivesse lei l’attesa non lo so e mi spiace tanto non poterlo mai sapere. Ma non sono cose che verrebbe in mente di chiedere a qualcuno in vita. Come ti senti mentre aspetti? Perché aspetti anche quando non ci sono appuntamenti? Cos’è, per te, l’attesa?
Forse lei aveva trovato la chiave di lettura alla famosa citazione di Gotthold Ephraim Lessing “l’attesa del piacere è essa stessa piacere”.
Fatto sta che uno dei ricordi più belli che ho della vita con i miei genitori, della mia vita con lei, fosse che non importava l’ora in cui rincasassi, non importava neanche l’umore che saliva con me, aprendo la porta di casa mi pervadeva sempre la sensazione di sentirmi al sicuro, di sentirmi attesa. L’odore tipico dell’appartamento, il riconoscere gli interruttori anche al buio, la stanchezza dei cani che manco si sforzavano di aprire gli occhi figuriamoci scodinzolare, il trovare ogni tanto il bagno occupato e pensare “che sfiga!”, sapendo che anche l’occupante al suono della maniglia forzata aveva pensato la stessa cosa.
A casa non era tutto rose e fiori, eh: a voglia di spine! Però il Natale e l’estate erano le stagioni (sì, il Natale può essere considerata una stagione dell’animo) in cui nella nostra piccola serra le cose funzionavano meglio. E questo grazie a lei.
Il calendricordario di oggi non è sul come vivere l’attesa, che questo dovrei chiederlo a lei, ma sul come illuminarla.
Nel periodo natalizio lei non solo aspettava il rientro dei figli, ma lo faceva lasciando l’albero acceso fino anche l’ultimo di noi fosse andato a letto. Non era una legge scritta, ma ricordo che lei una volta lo disse, che lo lasciava acceso per farcelo trovare anche a notte inoltrata. Ed effettivamente faceva atmosfera: faceva ritorno a casa. Non so come trascorresse lei il suo tempo intorno a tutte quelle lucine, non so se la rendessero più o meno felice. Ma il fatto che lei non le spegnesse faceva star meglio almeno me.
Oggi sono più consapevole di ieri che tanti piccoli gesti che formano la routine di una famiglia possono essere considerati piccoli rituali di cura di sé e degli altri: l’alzare e l’abbassare le persiane, accendere il fuoco sotto la caffettiera, riempire la caraffa dell’acqua quando ci si accorge che sta per finire, ed anche, ogni santo dicembre, cliccare sull’interruttore della ciabatta che comanda tutto (perché a casa nostra fra albero e presepe c’era un’intera centrale elettrica collegata) per spegnere le lucine e sancire la buona notte.
Prima di quasi tutti questi rituali se ne occupava mamma: io mi svegliavo e lasciavo la finestra aperta per arieggiare, lei la chiudeva quando io ero già a lavoro. Lei preparava il primo caffè del mattino ed era un momento che le mancava quando trascorreva alcuni mesi a MareMio “Devo tornare a casa, che sennò quella povera creatura non ha nessuno che le prepari un caffè”, diceva a mia zia, e quella povera creatura che ero io aveva già superato i 30 anni. Ma non era che io non sapevo prepararmelo, era che se me lo preparava lei aveva un sapore differente anche la sua giornata. Erano rituali di cura di sé, come io mi prendo cura di me rimboccando le coperte a Duetto, ad esempio.
Tutto questo miele di cui condiamo i ricordi, però, non sarebbe così dolce se non ci fossero stati anche momenti di agre risate.
Per me l’abbinamento finestra aperta e albero di Natale dà l’idea di calore anche grazie a un ricordo che ancora mi fa sorridere, e che riportai su Facebook pressappoco così:
“Tornare a casa e trovare che mamma ha lasciato l’albero acceso per me fa calore e accoglienza. Andare in camera e scoprire che madre ha dimenticato la finestra aperta da stamattina annulla e sostituisce la precedente. Però fa ridere”.
Grazie, mamma.