Oggi vi parlo di mia mamma, e di me, a partire da una macchina.

Le macchine non sono mai state uno status symbol per me, ma amiche sì, alcune di loro lo sono state davvero. Ariel era proprio un’amica fedele, di quelle che non ti abbandonano mai, che si fanno “piccirille piccirille” per entrare nei parcheggi e si allargano per contenere borse, bagagli e passeggeri.

Oggi però non voglio parlarvi di Ariel, ma di Floh, che più che un’amica è stata ed è una compagna. Noi non ci siamo scelte ma ci siamo capitate, ed è come se ancora ci stessimo conoscendo meglio, ma sappiamo di poterci fidare l’una dell’altra.

Ma anche Floh ha tante cose da raccontare ed una, la più importante, la porta scritta tondeggiante sulla fiancata: Mi vuoi sposare?

Floh è stata la prima vera macchina di mia mamma: la macchina della sua indipendenza. Quella che si è scelta, per la quale ha acceso un finanziamento, quella, finalmente, che non doveva cedere a nessuno e che, volendo, l’avrebbe resa libera di andare ovunque. E di km, in effetti, Floh ne ha fatti tanti, perché era la macchina con cui scendeva a MareMio e lì restava, per mesi, ad attenderci, intrattenendosi con zia e zio, in un trio compatto nell’affrontare le difficoltà col sorriso e talvolta anche al suono di fragorose risate. E una volta Floh ha persino visto la neve al Sud.

Panda nel cortile di MareMio, con la neve

Non si chiamava Floh con lei, e mi stona ancora riferirmi a lei con questo nome. Era la Panda o la Panda Testarossa, come l’ho ribattezzata molti anni dopo in contrapposizione alla Porsche di mio marito.

Come entrassero in Floh tutta la marea di bagagli che facevano su e giù per l’Italia, è un mistero, ma l’arte di sfruttare ogni “pertuso” è stata affinata dalla mia famiglia a partire dalle pareti di casa, che si intravedono dietro la marea di quadri.

Con Floh mamma si sentiva libera sicura, e ora che ce l’ho io capisco il perché: nonostante non sia proprio provvista di tutti i confort, ha il limitatore di velocità incorporato: vibra tutta e ti accorgi che devi rallentare. L’unico comando al volante è il clacson, mentre per regolare gli specchietti retrovisori c’è una scomodissima manopola (soprattutto quella al lato passeggeri) che non conosce vie di mezzo: un tocchetto di troppo e passi dal vedere il marciapiede a scorgere aerei in volo. I finestrini sono elettrici sono davanti, mentre dietro si va ancora a manovella. È vintage, è spartana, ma ha tutto a vista. Anzi, quasi tutto, perché l’antenna se la sono rubata nella civilissima Germania. Ma la radio non mi manca, perché sono vintage anche io lì dentro e ascolto vecchi cd cantando a squarciagola.

Quando mamma si ammalò nessuno ci aveva mai parlato di morte imminente. E non lo ha fatto manco lei, con nessuno, fino alla fine.

L’argomento morte è stato sfiorato solo una volta, con sue due desideri: “se muoio voglio essere sepolta a Salerno, con mamma e papà e la panda va a Perdifumo, che può sempre essere utile”. Un desiderio per sé e uno per noi, che faceva capire quanto quella macchina fosse importante per lei. Tanto che, allettata dalle cure e dai dolori, volle farsi rinnovare la patente, perché non voleva perdere la sua autonomia.

Quando mamma stava talmente male che era chiaro non avrebbe più guidato, chiesi ai miei fratelli se potevo prendermi la Panda. Loro avevano due macchine nuove, papà idem e io avevo Ariel, la mia amica, che sapevo avrebbe capito, perché lei capiva tutto.

Ma avevo come un debito da onorare. E un nome da dare.

Mamma è sempre stata Milena, e lo è anche sulla tomba. Solo all’anagrafe era Filomena, e negli ospedali conta l’anagrafe, soprattutto se parlare diventa uno sforzo enorme. Da malata mamma era tornata Filomena. E Giuseppe, un operatore sociosanitario a cui dobbiamo tanto, si era permesso un diminutivo col quale nessuno l’aveva mai chiamata. Arrivava la mattina in stanza con il caffè della macchinetta per chi di noi aveva fatto la notte e poi si chinava su di lei: “Come va Filo? Meglio oggi? Come hai dormito, Filo?”. Mamma non sempre rispondeva, e sinceramente io mi ricordo sempre meno. Ma era diventata Filo, ed in effetti da una mamma gomitolo si dirama sempre in filo.

Quando mamma è morta mi sono preparata ad espatriare. Avevo conosciuto Dirk, ma soprattutto mi sembrava di non avere più niente su cui puntare: un lavoro precario, col quale non avrei potuto vivere da sola, mesi faticossisimi alle spalle. Avevo bisogno di pace e di vita, che non sentivo più scorrere nelle mie vene. Sono partita con la Panda piena e un’amica come supporto-guida in terra tedesca. La Panda aveva varcato i confini, era diventata salterina insieme a me.

Una delle prime “esperienze” tedesche sono stati i Flohmark, i mercatini delle pulci, in cui qui vendono davvero di tutto e io, come mamma, per i mercatini vado pazza. “Filo-Flo -Floh, suona bena”, ho pensato. Così la mia panda testarossa è diventata Floh.

La Germania non è stata la soluzione, ma Dirk sì. Con la morte di mamma avevo cessato di essere figlia e non c’era una continuità. Desideravo essere madre, e sono stata accontentata, con un doppio pacco.

Ma come portare un duetto con la panda? Avevamo bisogno di una macchina familiare.

“Per la Panda la concessionaria ci darebbe 2.500 euro. Ma c’è un’altra possibilità: la racquistiamo poi a 600 euro”.

“Sì, ma dove la mettiamo?”

“Fittiamo un garage”

“E quando la usiamo? Non posso guidare due macchine contemporaneamente e non potrei portarci Duetto”.

“Ma è la macchina di tua mamma…”.

“Prendiamolo come un regalo da mamma per i nipotini…”.

Questo è stato il dialogo fra me e Dirk. Poi siamo andati a fare un paio di foto di addio, come avevo fatto per Ariel e Remì (la prima auto che ho guidato).

La Panda di mamma con figlia e nipoti

Duetto è nato e abbiamo comprato un Caddy, Ludwico, che, sarà perché è la prima macchina maschio che ho, non lo sento ancora né amico né compagno. È grande, ingombrante, ma così ci serviva ed almeno è azzurro, come i principi, e non bianco, come un furgoncino da lavoro.

Poi Dirk si è ammalato ed è ricominciata la trafila di chemio e paura, che in questo caso però ha avuto due lieti fini. Il primo, più importante, è che andato tutto bene. Il secondo, è che mi ha sposato. Non ero felice, perché mi pareva di costringerlo, con la mia paura di restare vedova senza diritti, con due figli di sei mesi e per di più in terra straniera. Avevo paura non mi sposasse per convinzione (l’amore c’era e c’è, ma la convinzione è un’altra cosa) ma per dovere.

Però lui ha tirato fuori uno dei suoi conigli dal cilindro: una festa a sorpresa, nonostante la chemio che lo debilitava. Mi sono vista spuntare a casa la mia migliore amica dall’Italia insieme al marito sposato solo sei mesi prima, e tanti altri amici che negli anni mi ero fatta qui. E poi, davanti alla porta di casa, Floh, rossa con la scritta bianca “Mi vuoi sposare?”.

Panda versione “Mi vuoi sposare?”

L’aveva venduta e riacquistata, aveva fittato un garage e l’aveva tenuta lì, in attesa del momento giusto. Lui voleva davvero sposarmi, ne era convinto. Non sapeva quando e la malattia aveva accorciato i tempi.

Quel giorno, casualmente, era arrivato dall’Italia anche l’abito di mia mamma, ma non avevo avuto modo né voglia di vedere come mi stesse e cosa si provasse ad indossarlo. A sera tardi, quando tutti avevano lasciato casa, messi i pargoli a letto, l’ho provato davanti alla mia migliore amica e il marito usando un loro gioco luminoso come bouquet.

Ero stanca, distrutta e non riuscivo ad essere felice ma sapevo che avevo tutti i presupposti per esserlo.

E lo sono ora, a distanza di anni, guidando la mia panda testarossa che porta ancora quella scritta, e ascoltando i vecchi cd che cantavo anche con mamma nei nostri viaggi verso sud. L’ho prestata spesso a chi ne aveva bisogno, tutte persone abituate a macchine nuove e full optional. Eppure per loro guidarla è un po’ come salire su una vecchia giostra.

Duetto la adora, sa che è la macchina di Nonna Milena e sognano che, un giorno, anche io possa avere una mia panda, ma gialla, che rosso era il colore preferito della nonna, non il mio. E aspettano di poterci salire, non solo per la tratta dal cortile al garage.