Te lo ricordi ancora quel giorno?
Era maggio, un maggio caldo come questo strambo ottobre col sole che scotta invece che limitarsi, come sua abitudine, a riscaldare le nostalgie.
Quel giorno io ero già innamorato, dio se ero innamorato! Non mi pareva vero, perché qualche settimana prima ero ancora disperato per F. che ero pronto a sposare e che invece mi aveva lasciato. Fino all’estate precedente avevo inscatolato ricordi ed emozioni e bagnato fazzoletti di lacrime e poi mi ritrovavo improvvisamente accanto a te a sognare un futuro insieme, di nuovo impaurito nel provare un amore così grande che non sapevo ancora (illuso io!) che non sarebbe mai stato corrisposto. Almeno non come avrei sognato per noi: come delle rondini.
Quanto ti ho odiato, quella sera! Mi infastidivi, per le stesse ragioni per cui mi infastidisci ancora oggi, ma sono così parte di te che le amo, le amo, le amo.
O forse amo la tua assenza in questa vita, perché sei la principale imputata per non avermela resa migliore e non saprò mai se mi sbaglio. Sei il mio più dolce capro espiatorio, quello che non mi fa sentire in colpa se qualche volta, disteso accanto a lei, penso a te e se immagino i nostri figli un giorno crescere insieme.
Quel giorno di quello strano maggio due rondini (“guarda, due, fan primavera! Tana per il proverbio!” Dicesti tu) disegnarono un otto davanti a noi. “Non fan primavera, fanno temporale, quando volano così in basso” ribattei così dannatamente pragmatico. Me ne pentii, come ogni volta (e quante erano!) che credevo di aver rovinato tutto.
Mi sorridesti. “E che ce frega?”, dicesti. E non me ne fregava già più niente.
Da allora, ogni volta, mi chiedo: ma che cazzo di libertà hanno da insegnarci le rondini?
Perché me lo chiedo?
Perché tu qualche tempo dopo, in uno dei tuoi tanti ritorni, venisti con una cartolina, una di quelle gratuite che si distribuiscono per pubblicità. Insegna anche a me la libertà delle rondini, c’era scritto.
“Stai studiando scienze forestali – ed in effetti avevamo ripassato insieme aquile e marmotte, e io volevo essere una marmotta, perché d’inverno si scaldano vicine, ma tu eri un’aquila in un corpo di asino, come amavi definirti, e mi stroncasti ogni poesia – me la spieghi questa?”.
“In che senso spiegare?”
“Qual è la libertà delle rondini? Voglio impararla”.
Ah, quella tua sete di conoscenza, ferma alle banalità, disinteressata al mastodontico, così fissata per i dettagli. Il diavolo si annida nei dettagli: avrei dovuto ricordamelo, invece di rimanerne affascinato.
Delle rondini, e di te, sapevo ancora così poco.
Le ho studiate, poi, sai? E le ho osservate tanto, e spesso. Per colpa tua ora la conosco, la loro libertà. Ma non ho mai trovato il modo (ed il coraggio) di dirtelo. Di dirti che tu, quella libertà forse ora l’hai imparata, ma nessuno avrebbe potuto insegnartela se non la vita.
La loro vita frenetica, così simile alla tua, è fatta per saziare i bisogni primari: la fame, primum, il calore, deinde, casa, post. O forse dovrei invertire l’ordine, e mettere primum la casa, che costruiscono con fatica e amore, cercando il luogo più adatto per loro e per i loro piccoli, che crescendo formeranno nuove famiglie e andranno a nidificare lì, accanto ai genitori, in un prosieguo generazionale che crea le fondamenta del villaggio. E questo fa il deinde, il calore: perché il loro nido sia sempre caldo e accogliente viene costantemente ristrutturato, e il maschio della coppia (sono monogame e fedeli, pensa te se questa oggi la chiameremmo ancora libertà, se non ironicamente) si preoccupa sempre di arrivare per primo e sistemare tutto per accogliere la sua femmina al rientro dalla migrazione. Post, la fame. È per quella che volano così tanto, instancabilmente, alla ricerca di insetti per sé e per i piccoli. Più volano più hanno fame più devono volare per procacciarsi cibo. Un circolo vizioso più che una vera e propria libertà, avresti detto tu, ma avresti fatto lo stesso, perché a star ferma proprio non riuscivi. E loro neanche, tanto che, quando devono migrare, riescono a cambiare totalmente le loro abitudini, e viaggiano di notte per riposarsi di giorno, per evitare di essere prede facili di uccelli più grossi.
Conoscendoti, avresti potuto dirmi: e che cavolo di libertà è, questa folle costante ansia di approvvigionamento, questo viaggiare instancabile ad ogni inverno, e questo costante ritornare allo stesso luogo, dopo aver attraversato posti più belli e caldi? Non facevano prima a rimanere in Africa?
E sta proprio qui, cuore mio, la loro libertà più grande, quella che non ho più da insegnarti: la libertà di seguire il loro cuore, di amare così tanto la casa da dedicare tutta la loro energia alla sopravvivenza per ritornarvi. I figli sono il motivo del loro costante movimento. Per loro il nido deve essere finito in tempo per la stagione degli amori. Lì deporranno e difenderanno le loro uova, lì li attenderanno i piccoli pigolanti, da lì insegneranno loro a spiccare i primi voli. E, come loro, inizieranno a viaggiare per ritornare, scegliere la rondine della loro vita e costruire un nido caldo, che il maschio si occuperà di ristrutturare, la femmina di difendere.
C’è forse libertà più grande di amare?
Io l’ho sempre saputo. Tu credo lo abbia imparato. Peccato non con me.