Italia-Germania 4-3: la partita del secolo

Ho deciso di chiamare una sezione del mio blog “Italia-Germania 4-3” perché di quella rocambolesca partita ne ho sempre sentito parlare (e perché ero comunque contenta che nello scontro diretto l’Italia ne fosse uscita vincitrice).

E perché, come me, anche lei, essendo stata giocata il 17 giugno 1970, è del segno dei gemelli.

Prendo in prestito le parole di chi quel giorno c’era, col cuore e con la mente:

«I tedeschi sono battuti. Beckenbauer con braccio al collo fa tenerezza ai sentimenti (a mi, nanca un po’). Ben sette gol sono stati segnati. Tre soli su azione degna di questo nome: Schnellinger, Riva, Rivera. Tutti gli altri, rimediati. Due autogol italiani (pensa te!). Un autogol tedesco (Burgnich). Una saetta di Bonimba ispirata da un rimpallo fortunato.

Come dico, la gente si è tanto commossa e divertita. Noi abbiamo rischiato l’infarto, non per ischerzo, non per posa. Il calcio giocato è stato quasi tutto confuso e scadente, se dobbiamo giudicarlo sotto l’aspetto tecnico-tattico. Sotto l’aspetto agonistico, quindi anche sentimentale, una vera squisitezza, tanto è vero che i messicani non la finiscono di laudare (in quanto di calcio poco ne san masticare, pori nan).

I tedeschi meritano l’onore delle armi. Hanno sbagliato meno di noi ma il loro prolungato errore tattico è stato fondamentale. Noi ne abbiamo commesse più di Ravetta, famoso scavezzacollo lombardo. Ci è andata bene. Siamo stati anche bravi a tentare sempre, dopo il grazioso regalo fatto a Burgnich (2-2). (…) Non senza ringraziare i tedeschi per la loro cieca dabbenaggine tattica e l’arbitro Yamasaki per la sua vigile comprensione… Ora siamo in finale, e si può vincere. Ma bisogna condurre veramente la squadra, non guardarla atterriti dalla panchina.»

(Gianni Brera, Il Giorno, 18 maggio 1970)

Un po’ metafora della mia vita qui, posso dire di essere arrivata in Germania come l’Italia si è presentata a quella semifinale: dopo aver superato i quarti fra alti e bassi, mentre la Germania arrivava ringalluzzita, forte della sua economia e della vantata superiorità in stabilità e welfare.

Anche io avevo collezionato il mio vantaggio (sono arrivata a poter esprimermi ad un livello molto buono dopo pochi mesi) per poi mettermi sulla difensiva per i restanti tempi regolamentari. E quando credevo di aver trovato una sorta di compromesso, ecco che due minuti e mezzo prima dei tempi supplementari arriva il pareggio.

Da qualche anno io sto giocando quei tempi supplementari: una montagna russa di emozioni che hanno reso la partita storica: esperienze lavorative che si potrebbero prendere a ridere, se solo avessero quel poco di senso dell’umorismo in più. La gravidanza, un test di sopravvivenza per ottimisti. E tutta una serie di passaggi rocamboleschi, un’alternanza di gol fatti e subiti e la stanchezza nelle gambe per quelle corse affannose e affannate per portarsi in vantaggio.

Un assoluto annullamento della tattica a favore dell’agonismo, con un particolare ringraziamento ai tedeschi per la loro “cieca dabbenaggine tecnica”, che mi permette di recuperare sempre quando subisco un gol, e alla fine della corsa terminare i supplementari con una vittoria per 4-3, ché a me, comunque, vincere piace assai, fregassai come.

120 minuti in cui mi capita spesso di sottovalutare l’avversario, ma anche di sopravvalutarlo, di non averlo studiato bene, di non capire come marcarlo o come smarcarsi per correre, correre, correre verso l’area di rigore e finalmente prendere la mira, e calciare.

Sì, la mia vita qui (e la mia vita col marito tedesco) è una continua partita di calcio fra due persone con scarsa competenza tecnica ma che sanno appassionarsi. E alla fine, comunque, ho sempre ragione io. Anche perché sono l’arbitro.