8 dicembre, l’Immacolata Concezione, festa nazionale tradizionalmente dedicata a fare albero e presepe.

Ormai abbiamo così fretta di addobbare casa che non si aspetta più questo giorno. Un po’ dispiace, ma avendo io stessa molto più tempo a disposizione e inglobando anche qualche tradizione qua e là per il globo, come il calendario e la corona dell’avvento o l’Elf on the Shelf, mi pare brutto aprire una finestrella o accendere una candela senza che la casa sappia di Natale.

Ma prima, quando ero figlia e non ancora madre, da ovunque io fossi tornavo a Firenze, salivo sulla soffitta bunker, tiravo fuori le decine di ceste dedicate agli addobbi natalizi e cominciavo la ristrutturazione edilizia.

L’albero era sopravvissuto a più traslochi di me, era alto e ancora frondoso nonostante l’età. Aveva perso la base (o meglio, noi avevamo perso la base) e per tenerlo dritto dovevamo adagiarlo in una giara (sì, a casa nostra, in appartamento, oltre i cani era normale avere giare vuote), riempirla di terriccio (sì, terriccio per piante usato per un albero di plastica. Ma plastica buona, eh!) e ogni tanto legarlo con le funi affinché non precipitasse.

Con la scala si procedeva all’addobbo, a partire dalle luci, che papà srotolava aiutandosi con il divano e che andavano distribuite prima intorno al tronco e poi sui rami. Non ricordo se 3 o 4 fili di luci bastassero, ma di sicuro fra albero e presepe venivano usate dalle 2 alle 3 ciabatte (a seconda della lunghezza delle stesse) collegate e attaccate all’unica presa nelle vicinanze.

Palline e fili terminavano l’opera e spesso venivano comprati nuovi a seconda del capriccio del colore di mamma e Sister, che erano le direttrici lavori, mentre io mi occupavo della struttura del presepe.

Le lucine erano tutte dotate di alternanza di illuminazione e canzoncine da regolare tramite telecomando. E affinché cima, parte centrale e parte finale venissero illuminate simultaneamente e alla stessa velocità ogni componente della famiglia aveva un telecomando in mano e bisognava schiacciare il pulsante alla fine del conto alla rovescia. Impresa che, ovviamente, richiedeva una molteplicità di tentativi e anche qualche isterico abbandono del posto di comando.

La foto rappresenta solo una parte del grande lavoro decorativo che era il Natale, ma rappresenta anche l’unione, che anche nelle famiglie più scapestrate il Natale sa rinsaldare. Il Natale è sempre un affare di famiglia, di ogni famiglia.

Per parafrasare Tolstoj potrei affermare che Tutte le famiglie felici a Natale sono uguali, ogni famiglia infelice è natalizia a modo suo”. Un po’ una forzatura, forse, ma ci sta.

Oggi ho un albero molto più basso, comprato quando non volevo più festeggiare il Natale ma My Love sì, ma lui voleva l’albero vero e a me dispiaceva, e poi ci servivano le luci ma non avevo voglia del lavoro che c’era dietro e allora lo abbiamo preso con luci incorporate e niente musichina, che qui magari si paga il corrispettivo della SIAE anche per quella. Ilumina i nostri natali da ben prima di Duetto, ma ora di più. Le decorazioni sono sempre le stesse, quelle che attendiamo di mettere di anno in anno e che vengono incrementate con i lavoretti di Duetto.

Per gli standard tedeschi rompe ogni standard: non è vero, non viene comprato il 23 e gettato il 26, ha molte decorazioni e ha le luci. Per questo piace anche a loro: è coraggioso, è pieno, non bada a spese.

Quelli che si vedono in giro sono decorati con la stessa tirchieria che caratterizza questa zona della Germania (e la loro semplicità è inversamente proporzionale al numero di parole che hanno per chiamare l’albero di Natale: Tannenbaum, Christbaum, Weihnachtsbaum sono quelli che conosco io) e che spesso mi ricordano l’albero a casa dei genitori di una mia carissima amica salernitana. Erano gli ultimi a farlo, quasi alla vigilia, e gli ultimi a levarlo, praticamente in estate, quando i rami erano ormai secchi e pareva già un sopravvissuto a una sciagura chimica. Ma faceva famiglia: la loro famiglia, che è anche un po’ la mia. E prendeva parte alle foto di compleanni primaverili rubando sempre qualche sorriso.

Ma soprattutto quello che oggi so, perché me lo ha insegnato Duetto, è che l’albero deve avere una stella in cima, sennò che albero di Natale è?! La nostra è di feltro e l’ho sottratta a un albero comprato per quando erano minuscoli. Quest’anno lo abbiamo regalato, stella esclusa per l’appunto, a un loro ex compagno dell’asilo, nella cui casa non si fa mai l’albero perché tanto trascorrono Vigilia e Natale dai nonni e quindi, dice la mamma, ha poco senso comprare il tutto. Ma il figlio (strano!) ha sempre desiderato un albero e ora ne ha uno tutto suo con cui decorare la cameretta e il suo spirito natalizio.

Questa è la parte che più amo del “second hand” o “second life”: dare agli oggetti una nuova vita, una nuova casa, un nuovo scopo che si adatta alle esigenze e ai desideri di qualcun altro. Per fortuna nella chat del mercatino dell’usato locale lo avevo messo come gratuito: non avrei mai potuto dare un prezzo al sentimento di saperlo la gioia di un altro bambino a cui mancava una fetta di Natale.